I pericolosi cowboy di Tarantino
L’America di oggi fatta di sangue e menzogne rivisitata in chiave western
"The Hateful Eight" merita più di una visione per apprezzare lo humor nero e il citazionismo tipici di Tarantino, a partire dalle reazioni improbabili di una condannata a morte e dalla scenografia che per alcuni potrebbe ricordare "Le Iene", film del medesimo regista.
Partendo dagli aspetti tecnici si può notare un fantastico editing audio, costante nel cinema tarantiniano, che fa sentire apticamente i pugni allo spettatore. Le musiche originali di Ennio Morricone -a parte due tracce che il "Maestro" aveva composto per "La cosa" di Carpenter e che Tarantino sfrutta per citare quest'ultimo anche grazie alla presenza di Kurt Russel attore protagonista del terrorifico sci-fi- vincitore del premio Oscar sono grandiose. Esprimono una tensione che nasce dall'insensibilità della natura umana nel condannare il suo prossimo alla morte. E ti lasciano senza fiato. Subito può sembrare che il film non voglia comunicare contenuti rilevanti mantenendosi superficiale al pari di un'opera postmoderna qualunque. Invece nel film viene rappresentata un'America unita dall'odio e dalla violenza, sorta sulle ceneri e sul sangue colato anche dalle bugie. Un paese dove nord e sud continuano a non sopportarsi ma su una cosa sono d'accordo: nel medesimo trattamento violento riservato alla donna. Una deriva della coscienza anche verso forme di odio razziale molto attuali, come lo scontro all'ultimo sangue con la banda di Messicani, gente "inferiore ai cani", messa in scena da Tarantino con sconcertante chiarezza nel confuso confine tra buoni e cattivi, giustizia e criminalità.
Questo film dipinge l'America così com'è oggi. Nonostante le risate in sala il film disturba il pubblico e lo fa consapevolmente. Perché l'arte quando si fa concreta diventa pericolosa, molto pericolosa. Proprio come lo sono i cowboy del caro e buon vecchio Tarantino che anche se cavalca sempre la scia postmoderna, ormai un po' retrò, non si smentisce per bravura.
scritto da Paolo Fleba